Il comune conta una superficie di 233,67 km², classificandosi all'85º posto tra i comuni d'Italia più estesi, e un'altitudine di 364 m s.l.m.
Pisticci nella parte centro-meridionale della provincia e si estende tra i fiumi Basento, ad est, e Cavone, a ovest, che separano il territorio pisticcese rispettivamente dai comuni di Bernalda (18 km) e Montalbano Jonico (24 km). Sempre ad est si affaccia sul Mar Jonio e confina ancora con i comuni di Craco (19 km), Ferrandina (23 km), Pomarico (24 km) e Scanzano Jonico (27 km). Pisticci è composto da diverse frazioni e borghi, le più rilevanti sono Casinello, Centro Agricolo, Marconia, Pisticci Scalo, Tinchi e Marina di Pisticci.
Le tre colline su cui sorge il centro storico, Serra Cipolla, San Francesco e Monte Corno, sono situate nella parte occidentale, dove il terreno è prevalentemente argilloso e i versanti sono caratterizzati da profonde scanalature, i calanchi. A causa della natura del terreno, Pisticci è stata spesso interessata da fenomeni di dissesto idrogeologico e frane. Nella parte orientale del territorio, invece, si estende un altopiano che digrada dolcemente verso la pianura metapontina e verso gli 8 km di costa, limite comunale sul mar Jonio.
L'abitato di Pisticci ha la forma di una S, formando una sorta di anfiteatro naturale, caratteristica per la quale, data la sua posizione strategica e dominante, è denominata il balcone sullo Jonio o l'anfiteatro sullo Jonio.
La stazione meteorologica più vicina è quella di Montalbano Jonico. Secondo i dati medi del trentennio 1961-1990, la temperatura media del mese più freddo, gennaio, si attesta a +7,4 °C, mentre quella del mese più caldo, agosto, è di +25,5 °C[5].
MONTALBANO JONICO | Mesi | Stagioni | Anno | ||||||||||||||
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Gen | Feb | Mar | Apr | Mag | Giu | Lug | Ago | Set | Ott | Nov | Dic | Inv | Pri | Est | Aut | ||
T. max. media (°C) | 11,1 | 12,3 | 14,7 | 18,1 | 23,1 | 27,5 | 31,6 | 31,7 | 27,4 | 22,1 | 17,3 | 13,2 | 12,2 | 18,6 | 30,3 | 22,3 | 20,8 |
T. min. media (°C) | 3,6 | 4,0 | 5,7 | 8,2 | 12,3 | 15,6 | 19,0 | 19,2 | 16,2 | 12,6 | 8,7 | 5,2 | 4,3 | 8,7 | 17,9 | 12,5 | 10,9 |
La storia di Pisticci è fortemente legata alle frane che più volte, nel corso del tempo, ne hanno modificato la topografia, la toponomastica e la storia.
Le principali cause sono dovute alla natura argillosa del terreno che predispone la collina su cui sorge l'abitato ad eventi di questo genere, che hanno interessato anche altri centri limitrofi, su alture con le stesse caratteristiche geologiche.
Tuttavia la causa riconosciuta come principale di tali eventi a Pisticci è il fosso detto "La Salsa", un piccolo torrente di acqua salmastra che scorre sotto i rioni del centro abitato più interessati dai movimenti franosi e a cui è stata imputata la destabilizzazione del terreno. Quest'ultimo è caratterizzato da un sedimento marnoso permeabile in superficie, poggiante su uno strato argilloso impermeabile che, in occasione di abbondanti precipitazioni, tende a far "smottare" lo strato sovrastante.
Negli ultimi decenni, il disboscamento della collina circostante ha peggiorato la già grave situazione. In presenza di queste situazioni, ogni volta che si è verificato un evento atmosferico di particolare potenza e durata (forte e abbondante nevicata o alluvione) si sono verificati movimenti franosi della collina. Si può dire che tutto il territorio porta il segno di queste rovine: esempio ne sono "le mesole", terrazzamenti un tempo agganciati alla collina che sono collassati verso valle, in direzione del Cavone, sì da guadagnarsi quel nome che sembra appunto voler dire terre "a mezza altezza", tra il monte e il fondovalle.
È la prima frana registrata e documentata avvenuta a Pisticci. Franarono alcune case del rione "Casalnuovo" a seguito di forti piogge.
È la frana più imponente e che ha influito di più sulla struttura dell'abitato. Dopo un'abbondante nevicata, la notte del 9 febbraio 1688 (rimasta nella memoria collettiva come la "notte di Sant'Apollonia") il centro urbano di allora, costituito dai rioni "Terravecchia", "Casalnuovo" e "Loreto", si spezzò letteralmente in due parti ben distinte: tutto il rione "Casalnuovo" franò sotto il rione "Terravecchia"; il movimento franoso si fermò solo quando incontrò l'enorme mole della chiesa Madre, la cui zona delle fondamenta venne chiamata perciò "Palorosso".
Le vittime furono 400, vennero travolte case contadine ma anche palazzi gentilizi e tutta la piazza antistante alla chiesa Madre, che in quegli anni era il centro di tutte le attività del paese.
Per la ricostruzione, il conte De Cardenas propose un luogo di sua proprietà in contrada "Caporotondo", poco fuori dall'abitato. Sperava così di rendere suoi affittuari tutti i pisticcesi, che tuttavia decisero di non abbandonare il colle, sia per il legame affettivo con il paese natale, sia perché avevano intuito il secondo fine[senza fonte].
Nel 1976, dopo circa tre secoli in cui non si registrarono eventi significativi, a seguito delle piogge di novembre franò una parte del rione "Croci"[7]. Tutta l'area interessata fu evacuata in tempo così non ci furono vittime né feriti.
I disagiati furono ospitati inizialmente nelle scuole del comune, in seguito furono assegnate delle case nella frazione Marconia. Alcune case del rione furono dichiarate inagibili e poi abbattute, altre furono rioccupate spesso abusivamente. Lungo tutta la sede della frana fu costruito un grande muro di contenimento in cemento armato. Ancora oggi l'ultima fila di case del rione sembra la strada di un paese fantasma, con case disabitate, case demolite solo a metà e porte che non danno sulla strada ma sono sospese in quanto dopo la frana la sede stradale si abbassò di qualche metro.
Oltre al rione "Croci" franò anche il muro a sostegno del sagrato della chiesa Madre (la stessa zona interessata dalla frana del 1688) e ancora una volta il movimento franoso è stato fermato dalla mole della cattedrale, che rimase con il portale principale sospeso nel vuoto fino alla ricostruzione della piazza e del muro.
A seguito dell'ultima frana Pisticci fu inserita dal Ministero dell'Interno nell'elenco dei comuni da trasferire altrove per dissesto idrogeologico e nacque una discussione con tre opzioni prevalenti:
La scelta cadde sulla terza opzione ma l'emigrazione nella frazione Marconia non cessò. Furono consolidati i muraglioni e vennero rimboschiti i calanchi con un vincolo sul territorio di non edificabilità per le nuove case e il divieto di sopraelevazione per quelle esistenti così da evitare l'appesantimento del terreno. Tale vincolo è stato poi superato.[senza fonte]
I primi insediamenti in territorio di Pisticci risalgono al X secolo a.C., ad opera degli Enotri, e sono testimoniati da diverse necropoli.
Successivamente l'area venne colonizzata dai Greci e Pisticci divenne un importante centro del territorio di Metaponto. Tra il V e il IV secolo a.C. vi visse e operò il cosiddetto Pittore di Pisticci, primo ceramografo italiota ad aver adottato in Magna Grecia la produzione di vasi a figure rosse.
Dopo la sconfitta di Taranto, Pisticci passò sotto la dominazione romana e diventò un importante centro agricolo.
Intorno all'anno 1000 i Normanni costituirono il feudo di Pisticci, posseduto in successione dai Sanseverino, dagli Spinelli, dagli Acquara e dai De Cardenas. Sempre nello stesso periodo, i Benedettini fondarono il cenobio di Santa Maria del Casale, poco distante dall'abitato, sui resti di un antico insediamento basiliano.
Nel 1565, in una località che dopo prenderà per questo il nome Scannaturchi, si combatté una battaglia tra pirati Saraceni e un manipolo eterogeneo di pisticcesi, professionisti, chierici e contadini[senza fonte]. In quei decenni le invasioni dei pirati furono molto frequenti e per questo venne costruita, nel territorio metapontino, una rete di torri di avvistamento.
Nel Seicento l'abitato contava circa 5 000 abitanti[8] e comprendeva i rioni Terravecchia, Santa Maria dello Rito (oggi Loreto), Osannale, Santa Maria del Purgatorio e Casalnuovo. Nel 1656 Pisticci fu risparmiata dalla peste che imperversava nel Regno di Napoli e che aveva fatto strage nei paesi vicini; molti videro San Rocco sopra la parte più alta del paese nell'atto di benedirlo. Per essere stati risparmiati dalla peste, i pisticcesi lo proclamarono patrono[9].
La notte del 9 febbraio 1688, a seguito di un'abbondante nevicata, una frana di enormi proporzioni fece sprofondare i rioni Casalnuovo e Purgatorio, causando circa 400 morti. Dopo la frana la popolazione rifiutò l'offerta del conte De Cardenas di spostare l'abitato più a valle, dove sarebbero state costruite nuove abitazioni, ma in cambio gli abitanti avrebbero dovuto pagare tasse supplementari al conte. Sul terreno della frana furono quindi costruite 200 casette in filari, tutte uguali, bianche, a fronte cuspidata. Il nuovo rione prese significativamente il nome di Dirupo, a ricordo della frana.
Durante la breve esistenza della Repubblica Napoletana del 1799 la città, dal punto di vista amministrativo, fu un cantone del dipartimento del Bradano retto dal commissario governativo Nicola Palomba.
Nei primi anni dell'Ottocento fu particolarmente cruenta l'azione del brigantaggio in tutto il territorio, difatti, intorno al 1800 gli attacchi di brigantaggio nel territorio lucano e pisticcese si fecero sempre più frequenti. Una di queste bande era quella del feudo di Policoro, composta da 100 uomini e capeggiata da Nicola Pagnotta. Nel Febbraio 1808 la popolazione venne informata dell'arrivo della banda di briganti, e fu proposto loro, per evitare razzìe, di mostrare la fedeltà al passato regime mostrando un vessillo borbonico. Il comandante della Guardia Civica, Don Pietro Latronico rifiutò la proposta e si accinse a difendere il paese. All'arrivo della banda di briganti, però, molti cittadini si fecero ingannare dal brigante, che prometteva ricchezze e protezione, e lo accolsero a braccia aperte contrastando la stessa difesa organizzata dalla Guardia Civica. Molto presto si rivelarono le vere intenzioni dei briganti che cominciarono a fare razzie in tutto il paese, senza rispettare né donne né bambini. Verranno detti 'traditori del paese' i molti che aiutarono i briganti ad entrare nella cittadina ormai messa a ferro e fuoco dalla Compagnia di Pagnotta che, finite le razzie, andò poi via da Pisticci. I cittadini subirono poi l'attacco delle truppe francesi, poiché considerati come traditori della Guardia Civica, e delle truppe Borboniche, che chiesero come risarcimento un tributo di 800 ducati per ogni cittadino. Sulla fine del Brigante Pagnotta si racconta che fu tradito dalla sua amante e catturato dalla Guardia Civica per poi essere condannato a morte. La leggenda narra che il suo corpo fu smembrato e parti dello stesso furono distribuite fra i paesi da lui stesso razziati e colpiti, e al territorio pisticcese giunsero le sue gambe deposte nella località sottostante la chiesa della Concezione, attuale Contrada Pagnotta.
Nel 1808 fu soppresso il regime feudale e nel 1861, entrata a far parte del regno d'Italia, Pisticci diventò municipio e il primo sindaco fu Nicola Rogges. A cavallo tra l'Ottocento e il Novecento si ebbe la prima grande ondata migratoria, soprattutto verso le Americhe.
Durante il periodo del fascismo, Pisticci concorse con Matera per divenire capoluogo provinciale, titolo che poi venne assegnato alla città dei Sassi nel 1927.
Nel territorio di Pisticci fu realizzato dal regime un campo di confino per antifascisti, che furono impiegati per disboscare e bonificare la malarica e paludosa pianura metapontina[10]. Oltre agli antifascisti, vi furono prigionieri, tra il 1940 e il 1943, anche un gruppo di profughi ebrei in internamento civile, considerati nemici in patria dal regime fascista. Secondo Aldo Cazzullo (Mussolini Il capobanda, Milano, Mondadori, 2022, p. 258), a Pisticci "la prigionia è molto più dura, molti ebrei si ammalano di malaria. In ogni caso non è loro consentito lavorare, non hanno denaro né prospettive, sono del tutto in balia della sorte". Gli internati ebrei furono tutti liberati con l'arrivo dell'esercito alleato nel settembre 1943 e da Pisticci poterono raggiungere i campi profughi per loro approntati in Puglia nell'Italia liberata.[11] Il campo di internamento di Pisticci - chiamato "Villaggio Marconi" in onore di Guglielmo Marconi - è oggi la popolosa frazione di Marconia, che ospita circa la metà dell'intera popolazione comunale. La frazione si è molto sviluppata tra gli anni sessanta e settanta.
Come dopo la grande guerra, anche negli anni successivi alla seconda guerra mondiale ci fu una forte emigrazione verso il Nord America e la Germania.
Nel 1976, a seguito di forti piogge, franò una parte del rione Croci, a molti abitanti di quel quartiere fu assegnata una casa nella frazione Marconia, il che favorì la prima espansione della frazione. La successiva avvenne tra gli anni ottanta e i novanta dove molti rioni del centro storico subirono un notevole spopolamento, gli abitanti, infatti, preferirono trasferirsi nella frazione Marconia. In questi anni, la frazione Marconia, notevolmente cresciuta, ha iniziato ad aspirare all'indipendenza amministrativa.
Nei primi anni del XXI secolo, tuttavia, lo spopolamento del centro storico si è sostanzialmente fermato e il flusso demografico risulta in leggera controtendenza rispetto agli anni precedenti.
Il 27 aprile 1991 San Giovanni Paolo II, in Basilicata, visitò Pisticci dove incoronò la statua di Santa Maria la Sanità del Casale, conservata nell'omonima Abbazia.
La M e la P presenti sullo stemma cittadino ricordano come Pisticci gravitasse nell'area di influenza di Metaponto, un fatto di cui è simbolo anche la spiga di grano, infatti la spiga era il simbolo stesso di Metaponto ed era effigiata sulle monete della colonia greca.
Il primo stemma cittadino, visibile sul basamento dell'altare della chiesetta rurale di San Vito, era costituito dalla sola spiga. Lo stemma e il gonfalone in uso sono stati concessi con decreto del presidente della Repubblica del 6 febbraio 1963.[12]
Blasonatura stemma
«D'azzurro, con al centro una spiga d'oro che separa le lettere M e P d'argento. Ornamenti esteriori da Città.»
Blasonatura gonfalone
«Drappo partito di giallo e di azzurro, caricato dello stemma con l'iscrizione centrata in oro in alto: Comune di Pisticci, al centro vi è lo stemma poggiante tra due rami di alloro legati tra di loro con un fiocco centrale rosso, ancora più in basso insistono decorazioni in oro, la sommità, in metallo appuntita, sovrasta una coccarda tricolore.»
Sorge sui resti di una chiesa preesistente del 1212, di cui rimane il campanile con due ordini di bifore. L'attuale edificio fu terminato nel 1542, con la costruzione di altre due navate oltre a quella della chiesa precedente, ed è opera dei Mastri Pietro e Antonio Laviola, fratelli mantovani in fuga dalla loro città natale perché accusati di omicidio che si stabilirono a Pisticci.
La chiesa è di stile romanico-rinascimentale, con tetto a doppio spiovente e pianta a croce latina, si compone di tre navate e all'incrocio tra la navata principale e il transetto si erge una grande e alta cupola emisferica. Le navate laterali ospitano cappelle e altari barocchi che furono edificati sopra gli ipogei dove venivano seppellite personalità importanti nella vita del paese. Gli altari sono intagliati in legno e dorati, con incastonate tele e statue di cartapesta attribuite a Salvatore Sacquegna.
Sono presenti delle tele del XVIII secolo attribuite a Domenico Guarino, tra cui quelle rappresentanti la Madonna del Carmine e la Madonna del Pozzo e altre raffiguranti i Misteri del Rosario.
Fu presumibilmente costruita intorno al 1087 sui ruderi di un antico cenobio greco-bizantino da Rodolfo Maccabeo ed Emma d'Altavilla, sul monte Corno, allora fuori dal centro urbano di Pisticci. L'abbazia, dedicata alla Beata Vergine Maria, fu affidata ai monaci benedettini di Taranto.
Il complesso è in stile romanico pugliese, costruito in pietra locale. L'abbazia è stata uno dei santuari del Giubileo del 2000. La statua della Vergine è una scultura in legno del XII secolo e fu incoronata da papa Giovanni Paolo II il 27 aprile 1991.
Fu costruito come masseria fortificata intorno al VII secolo dalla comunità monastica dei basiliani. Divenne poi feudo normanno assumendo sempre più le caratteristiche di un castello con la costruzione del torrione centrale. Dai feudatari normanni fu in seguito donato alla comunità benedettina dell'abbazia di Santa Maria del Casale di Pisticci.
È un'area collinare sulla riva destra del Basento che hanno portato alla luce resti di un villaggio enotro risalente al IX secolo a.C. e di uno greco di fase successiva costruito sopra il precedente villaggio.
La scoperta dell'area e gli scavi iniziarono nel 1970 e furono affidati all'Università di Milano nel 1973. Sono ora visitabili i resti della cittadina, mentre gli oggetti e i vari reperti rinvenuti nei dintorni sono esposti al museo archeologico nazionale di Metaponto.
Abitanti censiti[14]
Il comune contava, al 31 dicembre 2010, 17 927 abitanti[15] così ripartiti: 8 771 maschi e 9 156 femmine. Le famiglie erano 7 294, le convivenze registrate 8 e la media di componenti per famiglia 2,46 (leggermente inferiore alla media nazionale di 2,5).
Di seguito vi è la tabella con la suddivisione della popolazione nelle frazioni, basata sui dati del 14º Censimento generale della popolazione e delle abitazioni ISTAT dell'anno 2001[16].
Località | m s.l.m. | Popolazione |
---|---|---|
Marconia | 106 | 8.258 |
Pisticci | 364 | 7.043 |
Pisticci Scalo | 54 | 572 |
Tinchi | 141 | 506 |
Centro Agricolo | 124 | 113 |
Marconia-San Basilio | 90 | 110 |
Borgo Casinello | 10 | 31 |
Caporotondo | 193 | 22 |
San Teodoro | 64 | 21 |
Case Sparse | 65 | 1.135 |
Al 31 dicembre 2023 la popolaione straniera è di 1250 abitanti, pari al 7,35% della popolazione pisticcese. Le principali comunità rappresentate sono le seguenti:[17]
Il dialetto pisticcese è un tipico dialetto meridionale dell'area lucana, di derivazione prevalentemente greca e latina con influenze di spagnolo e francese derivanti dalle varie dominazioni subite. Sono presenti anche alcuni termini di chiara impronta anglosassone, portati dagli emigranti tornati d'oltreoceano, a dimostrazione dell'intensità del fenomeno migratorio: in taluni casi le persone hanno conservato tal quale il soprannome che si sono guadagnate, loro direttamente o i loro progenitori, durante i trascorsi americani.
È definito un "dialetto cantante" perché caratterizzato da una fonetica che inclina spesso alla cantilena[senza fonte]. Non a caso esisteva una ricca tradizione basata sul canto funebre: a nnaccarat, che fa pensare alla trenodia greca o alle preficae romane. Si trattava di manifestazioni, davanti alle spoglie del defunto, che stemperavano il parossismo fisico dell'autopercuotimento e del ferimento a sangue del volto in autentiche creazioni poetiche intese a far rivivere il morto, lodandone la grandezza in vita e le gesta. Anche se il canovaccio era abbastanza ripetitivo, i contenuti della lamentazione erano di volta in volta differenti e non era raro il caso in cui tra le "interpreti" non si accendesse una vera e propria competizione, a chi meglio celebrava e rappresentava la memoria dello scomparso.
Il dialetto stretto non viene quasi più parlato, sostituito dalla forma inflazionata dall'Italiano presente oggi. Rimangono tuttavia molti elementi del dialetto puro, soprattutto alcuni termini o forme verbali.
Il vestito tipico delle donne pisticcesi era la pacchiana. L'abito era formato da una gonna di panno scuro a pieghe larghe chiamata vunnèllə legata da una cinta (u cintə), che poggiava sulle anche e sulla quale è presente u senale di seta nera, ad un corpetto finemente ricamato (u sciuppə).
Anche se a vunnèllə era tipica delle giovani donne che venivano iniziate a questa forma di vestizione in corrispondenza della loro uscita dall'adolescenza, come segno del loro essere pronte al matrimonio e quindi la gonna di panno scuro a pieghe larghe, comunque spesso impreziosita di ricami a fili d'oro appena al di sopra dell'orlatura inferiore, andrebbe riportata come stuana.
Una stola che scendeva per le spalle e copriva il petto era a sciarpettə, di colore bianco, come bianco era il colore delle maniche della camicia, gonfie, finemente orlate di pregiati merletti, eventualmente avvolti da un nastro di seta nero, u lutte. Completavano il vestito u sciuppə, corpetto in velluto ornato di frange e ricami e u pannə, copricapo di lana o seta.
Carlo Levi lo cita nel suo romanzo, Cristo si è fermato ad Eboli, celebrandone la ricchezza e lo sfarzo rispetto a quello locale di Gagliano (Aliano), suo luogo di confino.
Il vestito tipico dell'uomo era composto da pantaloni di stoffa di fustagno corti, allacciati sotto il ginocchio con una ghette: una giacca ampia alla cacciatora in fustagno e velluto e una camicia di tela con pistagna senza colletto coperta da uno smanicato. Completava l'abbigliamento un cappello a tese dure. D'inverno si usava come riparo dal freddo un mantello a ruota.